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Produrre su ordinazione

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Produrre su ordinazione, la scelta etica di La Methode

L'attesa che ripaga ambiente e persone.

L'attuale scenario post-industriale ci porta quotidianamente a interrogarci su quali siano le azioni più urgenti da cui partire per ridurre l'impatto delle nostre scelte sul pianeta.

La straordinaria inventiva del genere umano ha portato a incredibili innovazioni che ormai caratterizzano la nostra vita di tutti i giorni e al contempo ha generato bisogni prima inimmaginabili, tutto sommato non sempre così indispensabili.
Certo la crescita economica ha portato al miglioramento delle condizioni di vita media, quantomeno in alcune porzioni del globo, rispetto, per esempio, a inizio novecento; chiedere ai nostri nonni per credere.

Condizioni migliori e maggiore disponibilità economiche in generale, un ritrovato entusiasmo unito a una disponibilità prima impronosticabile.

Il periodo post bellico è stato caratterizzato da un rilancio sociale ed economico che ha portato a grandi investimenti, produzioni in aumento e la conseguente incessante necessità di ottimizzare i costi per offrire prodotti sempre più competitivi e acquistabili in larga scala.
Un mix perfetto che ha portato progressivamente alla delocalizzazione di intere filiere produttive, dapprima locali, a favore di un continuo risparmio sui costi e maggiore relativo profitto.

Più si produceva, più si delocalizzavano le catene produttive, più aumentavano i fatturati.

La gara al trovare il migliore fornitore, la migliore (c'è da chiedersi se anche più responsabile) filiera è partita.
I volumi produttivi impazziscono i prezzi si contraggono, un marketing ben piazzato che induce bisogni irreali. Il dado è tratto.

Nascono prodotti pensati per per essere usa e getta (o quasi) e a catena sorgono una serie di effetti collaterali devastanti.

Si producono quantità eccessive di beni sia di quelli che necessitiamo (cibo, indumenti etc...) sia di cui non abbiamo realmente bisogno. Gli impatti di questo approccio causano di sovente sovrapproduzioni dannose per ambiente, società e persone.

Per chi sovra-consuma c'è chiaramente chi sovra-produce, questo sovra (over-production e over-consumption come si direbbe in inglese) è talmente grande tanto che i prodotti spesso diventano rifiuti ancor prima di essere utilizzati.

Il tema è enorme, sottovalutato (o occultato) per anni e ora ne vediamo squilibri e risultati dandoci la sensazione sensazione che le nostre singole azioni non possano sortire alcun cambiamento tangibile sul cambiamento, ma non è così.

Concentriamoci ora sul settore che noi conosciamo meglio, ossia l'industria tessile.

La consapevolezza acquisita negli anni di lavoro relativa al tema delle sovrapproduzioni o delle richieste di vari brand non molto accorte ai loro impatti ambientali, sono temi vissuti e sperimentati direttamente sulla nostra pelle, con rammarico per certi versi.
Dietro passerelle e vetrine si cela infatti un potente settore che da voce a un'espressione culturale, identificativa e creativa della società, ma nasconde al contempo contraddizioni evidenti, oltre che un pizzico di non sincerità, per essere buoni.

Come avrai già avuto modo di vedere durante il documentario Rai, Il verde è di moda andato in onda i primi di maggio 2023 (qui il link), il tema di una comunicazione caratterizzata da messaggi etici e apparentemente pro-ambiente con contenuti decisamente vaghi e non quantificabili (green-washing) è uno dei maggiori esempi di come nascondere la polvere sotto il tappeto, nonché una tecnica ormai molto diffusa di marketing sleale.

Una strategia accurata di produzioni massive e delocalizzate, informazioni fuorvianti e difficilmente verificabili contribuiscano ad annientare intere aree geografiche e con esse le famiglie al loro interno pur dando ai clienti finali la sensazione di operare o meglio, acquistare, nel giusto.
Un giusto che a diversi brand e influencer non sembra interessare o, quantomeno, toccare così da vicino.

In questo articolo approfondiamo il tema della sovrapproduzione di abbigliamento e di come sia possibile immaginare uno scenario diverso per il futuro, magari più lento e qualitativo.

Le cause sono inizialmente da attribuire inizialmente all'avvento del sistema fast-fashion tra la fine degli anni ottanta e inizio anni novanta, ma non solo.
Spinti ad un consumo veloce e ben motivati da politiche di vendita aggressive, ci si è fatti sfuggire la dimensione della ragionevolezza e della necessità.
Secondo una ricerca di Ellen MacArtur Foundation si conta che, solo nel settore tessile, l'equivalente di 500 miliardi di dollari di vestiti vengono prodotti, acquistati, indossati e buttati ogni anno!

Siamo arrivati quindi a produrre oggetti di cui non abbiamo realmente bisogno, al punto che diventino spesso rifiuti ancora prima di essere consumati; parliamo di prodotti nuovi, invenduti e gettati via.

Una domanda ci sorge spontanea.
Tutto quanto prodotto, non acquistato e gettato in discarica chi lo paga?

Qualsiasi azienda che tragga profitto dalle proprie attività non può non considerare questi costi, per cui ci si adegua contraendo il più possibile i costi di processo e applicando un margine di vendita alto, tanto alto da poter coprire gli invenduti.

Bene, ma quando un prodotto finito viene venduto a pochi euro ed è stato prodotto dall'altra parte del mondo, i conti non sembrano tornare. Non pensi?

Abbiamo concentrato questi temi di rilievo per sottolineare gli squilibri che queste attività generano sull'ambiente e sulla società: inquinamento, movimentazioni logistiche folli, sfruttamento delle risorse, delle persone e un breve ciclo di vita dei prodotti non può essere la direzione in cui continuare a operare.

Fintanto che sarà il volume di produzione il motore economico globale le attività comprimeranno costantemente i propri margini e con essi la possibilità di sviluppo sia aziendale che sociale.

Contribuiremo nel creare così un disequilibrio tra le catene produttive sane, innovative e attente ai loro impatti e aziende delocalizzate, incontrollabili, che celano pratiche di produzione poco trasparenti.
Questo, a nostro giudizio, genera un forte squilibrio e una di fatto non possibile concorrenza di mercato con costi di trasformazione incomparabili.
Gli alti investimenti necessari per l'adeguamento a standard produttivi elevati in termini di contenimento delle emissioni e della promozione di sani contesti sociali influenzano il valore e il prezzo dei prodotti, rendendoli poco competitivi rispetto ad altre regioni del mondo in cui persone e ambiente sono continuamente sfruttati e schiacciati.

Quindi ora, come possiamo invertire questa tendenza?

Molto inizia dalla presa di consapevolezza da parte di tutti noi.
Comprendere che il problema esista realmente e colpisca la vita di tutti noi è il primo passo per agire.
Il nostro compito è quello di analizzare e proporre alternative che vadano a includere benessere sociale, economico e ambientale.

Si parla in molto in questo periodo di "decrescita felice", una parola che per certi versi fa venire i brividi all'imprenditoria essendo un concetto che si sradica da quanto ha caratterizzato la crescita economica sino ad oggi.

La decrescita felice si discosta quindi dalle politiche legate all'aumento del prodotto interno lordo, andando a concentrarsi maggiormente sul benessere umano, la sostenibilità ambientale e la qualità della vita.

Trovare un nuovo equilibrio è una grande sfida e una grande opportunità.

Dal nostro punto di vista un modello allineato a questi principi si può attuare grazie alla localizzazione delle filiere, al tornare a collaborare con il territorio conoscendo i produttori ed essendo partecipi delle scelte effettuate. Non demandando ad altri controlli e verifiche, i migliori certificatori di qualità siamo noi (inteso come singoli privati cittadini).

Si stima che nella produzione di una t-shirt circa almeno il 30% (si arriva a percentuali anche maggiori non curando la qualità) dei materiali venga scartato nei processi tra la coltivazione e la realizzazione del capo finito; queste quantità si sommano agli ormai famosi 11 kg di rifiuti tessili pro capite per cittadino europeo annui, portandoli a 15/16 kg di scarti tessili annui.

Alle aziende si presenta quindi la sfida di passare da modelli imprenditoriali incentrati sulle quantità verso modelli orientati alla qualità, nel senso olistico del termine.

In seguito a queste riflessioni, radicate nella genesi del progetto La Methode, abbiamo stilato un breve elenco di temi su cui riflettere e agire:

  • Risparmiamo e investiamo: scegliamo prodotti necessari, durevoli e realizzati in contesti che tutelano persone e ambiente;
  • Visitiamo le aziende: chiedi di mostrare i processi senza timidezza;
  • Condividiamo le nostre scelte: sensibilizza la tua comunità, amici e parenti, sull'importanza delle scelte responsabili;
  • Cerchiamo prodotti realizzati eticamente che producano pochi scarti o li recuperino.

Questo mind-set rappresenta la nostra missione.

Producendo solo su ordinazione ci schieriamo con passo deciso verso un ecosistema nel quale crediamo molto e che drasticamente riduca i propri sprechi e scarti, favorendone la gestione e soprattutto il riutilizzo degli stessi.

Siamo agli antipodi con l'attuale andamento di mercato, dove l'acquisto immediato e prodotti che arrivano già a casa prima ancora del reale bisogno (vedi anticipatory marketing) sono la normalità.
Questo modello continuerà a funzionare? E' quello di cui abbiamo necessità?
Come è possibile che ci arrivino i prodotti ancora prima che ne registriamo un reale bisogno?

Optare verso la scelta di capi realizzati direttamente dal produttore e ordinarne la produzione è un atto forte e decisivo e a favore sia di filiere che di ambiente.

Torneremo a un sistema più lento e l'attesa sarà gratificante, poiché riceveremo qualcosa di cui abbiamo davvero bisogno, realizzato con cura in Italia e da persone che possiamo conoscere e con cui poter dialogare.


Produrre su richiesta permette alle aziende di non investire denaro sugli invenduti, sui resi, su prodotti che diventano rifiuti e libera risorse da investire sulla selezione della materia prima, sul riutilizzo dei filati o tessuti scartati dalla produzione, permettendo quindi un controllo di tutti gli input e output legati ai processi. Inoltre le quantità prodotte sono destinate a un cliente finale, non a un rivenditore e quindi potenzialmente a uno scaffale!

Per realizzare un prodotto, ad oggi, impieghiamo circa un mese tra tessitura, finissaggio e confezione artigianale.

Le aziende con cui collaboriamo sono a gestione familiare e situate nel raggio di 100 km dalla nostra sede.
Tutte loro rappresentano l'eccellenza del settore e possiamo certificare che i processi avvengano in modo etico.

Crediamo che questo modello possa contribuire ad invertire la rotta, immaginando un futuro più locale, autentico e di qualità.

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La Methode, un progetto di Produce Sinapsi.
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